Una piccola cosa che sta per esplodere

Cinque racconti ambientati negli anni più teneri, più violenti, più tormentati della nostra vita. Ereditiere affascinanti e scheletriche rinchiuse in una clinica per anoressiche, figli scaraventati dai genitori nel naufragio del loro matrimonio e di un’epoca, orfane di giocatori d’azzardo che cercano riscatto nell’immaginazione. Il filo rosso che lega queste storie è il momento, vivo e straziante, in cui prendiamo coscienza della nostra identità, scopriamo il sesso, l’amicizia, la crudeltà del mondo, attraversiamo la linea d’ombra con un atto di rivolta. La scrittura intensa e precisa, e un sapiente uso dell’intreccio, trovano nell’adolescenza il luogo magico in cui i personaggi, raccontando la propria vita, mettono a nudo la nostra.

Nel mare ci sono i coccodrilli

Se nasci in Afghanistan, nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, può capitare che, anche se sei un bambino alto come una capra, e uno dei migliori a giocare a Buzul-bazi, qualcuno reclami la tua vita. Tuo padre è morto lavorando per un ricco signore, il carico del camion che guidava è andato perduto e tu dovresti esserne il risarcimento. Ecco perché quando bussano alla porta corri a nasconderti. Ma ora stai diventando troppo grande per la buca che tua madre ha scavato vicino alle patate. Così, un giorno, lei ti dice che dovete fare un viaggio. Ti accompagna in Pakistan, ti accarezza i capelli, ti fa promettere che diventerai un uomo per bene e ti lascia solo. Da questo tragico atto di amore hanno inizio la prematura vita adulta di Enaiatollah Akbari e l’incredibile viaggio che lo porterà in Italia passando per l’Iran, la Turchia e la Grecia. Un’odissea che lo ha messo in contatto con la miseria e la nobiltà degli uomini, e che, nonostante tutto, non è riuscita a fargli perdere l’ironia né a cancellargli dal volto il suo formidabile sorriso. Enaiatollah ha infine trovato un posto dove fermarsi e avere la sua età. Questa è la sua storia.

L'Arminuta

Il titolo  – termine dialettale traducibile in «la ritornata» – si riferisce alla protagonista, una tredicenne che, senza

capirne la ragione, viene rimandata alla famiglia d’origine dopo essere vissuta fin da piccolina in una famiglia diversa che ha sempre creduto la sua. Si trova così ad affrontare una vita aspra, in un ambiente povero ed estraneo, se non addirittura ostile.  Solo la sorella Adriana, di poco più piccola, il fratello grande Vincenzo e il piccolo Giuseppe si distinguono, in  modi diversi, in questa famiglia disordinata e confusa  e con loro la ragazzina tredicenne – di cui non si dirà mai il nome – riesce a stabilire delle relazioni.

Particolarmente difficile è il rapporto con la madre, anch’essa senza nome, posta a confronto con Adalgisa, l’altra madre, emblema di affetto, cura, protezione. Sul finale, il romanzo svela i dettagli della situazione e i motivi del trasferimento, conosciuti da tutti ma

sottaciuti alla protagonista.

Kolja. Una storia familiare

 

Il nuovo e bel romanzo di Giulia Corsolini prende avvio durante l’estate e ha per protagonisti due gruppi di personaggi destinati a incrociare le loro esistenze e condividere i loro sentimenti.

Una coppia, Natalie e Marcello accolgono nella casa dei loro ricordi 3 bambini ucraini che trascorreranno un periodo di vacanza all’interno di un progetto di scambio. Avvengono varie e diverse vicende in modo particolare, significate da  uno dei tre bambini: Kolja per l’appunto.

Nel romanzo si respirano rapporti affettivi sinceri e di aiuto scambievole illuminando i movimenti degli animi senza nessun compiacimento. Fortemente consigliato.

Una storia che parla di te

Ho sempre cercato un fratello, qualcuno che fosse come me: non colpevole. A dodici anni, Dèsirèe ha dovuto imparare in fretta.

Preparare il latte in polvere, cambiare i pannolini, infilare e sfilare tutine, tagliare le unghie, interpretare le mille sfumature del pianto. È stata lei a prendersi cura di Zakaria nei suoi primi mesi di vita. Se chiude gli occhi, lo rivede. È «un chicco di caffè» con le mani grinzose e qualche ricciolo «disegnato a carboncino sulla testa rotonda». Ha i suoi stessi occhi a mandorla – anche se la pelle di colore diverso – e la stessa madre che, trincerata dietro la porta del bagno, cede ogni giorno di più al ricatto della dipendenza per «guardare il mondo sottosopra, la testa rovesciata all’ingiù».

Questo libro Dèsirèe lo ha scritto per lui, Zakaria: per trovarlo, ovunque sia oggi. Per raccontargli la storia della sorella che non sa di avere e che lo ha accudito prima che una famiglia per bene lo adottasse. Il racconto di una bambina che ha conosciuto la violenza, l’abbandono e la morte mentre i suoi coetanei dismettevano il quaderno con i quadretti

grandi per passare a quello con i quadretti piccoli; di una ragazza cresciuta in una comunità, poi in un centro diurno e poi in un progetto di autonomia guidata; di un’adolescente che ha trovato il coraggio di amare ed essere amata, nonostante tutto; di una donna che ha avuto paura di non farcela, e ce l’ha fatta.

Le figlie perdute della Cina

Dieci capitoli, dieci donne, un’unica storia di grande dolore: Xinran ci conduce nella vita delle donne cinesi studentesse, donne d’affari di successo, levatrici, contadine, “guerrigliere di nascite clandestine” con un destino comune. In conseguenza della politica che impone un solo figlio, a causa di antichissime e terribili tradizioni o di pesanti difficoltà economiche, molte donne hanno dovuto separarsi dalle proprie figlie e darle in adozione, altre sono state costrette ad abbandonarle per le strade di qualche città, fuori da un ospedale o da un orfanotrofio, o sulla banchina di una stazione e altre ancora se le sono viste portar via al momento del parto per essere uccise. Sono storie che Xinran non è mai riuscita a raccontare in precedenza, troppo dolorose e troppo vicine a casa. Un libro personale e diretto, ricco di momenti delicati e commoventi. Un messaggio straziante inviato dalle madri naturali a tutte le bambine cinesi che sono state adottate all’estero; un messaggio che mostra quale fosse la realtà di quelle madri e racconta alle figlie quanto siano state amate e che non verranno mai dimenticate.

Borgo Sud

In questo romanzo, con cui l’autrice trova la via per continuare le vicende  del suo romanzo di successo “L’Arminuta”, i legami e gli scontri avvengono sullo sfondo di un borgo di pescatori solidali e di un paesaggio che si fa  personaggio. Adriana e sua sorella (l’Arminuta, voce narrante del racconto e protagonista del romanzo omonimo) sono molto diverse per carattere e mentalità. Non si vedono da tempo e il divario tra loro sembra aumentare quando Adriana, proveniente dall’umile quartiere pescarese di Borgo Sud, si presenta dalla sorella con in braccio un neonato. In realtà una cosa unisce  le due donne: entrambe si sono legate troppo presto ai loro uomini rimaste ferite. L’Arminuta è stata ingannata dai continui tradimenti del  marito, mentre Adriana ha avuto una relazione tormentata con Rafael, il pescatore da cui ha avuto il figlio. Le sorelle condividono lo stesso destino: non sentirsi mai amate, prima dai genitori anaffettivi, poi da uomini egoisti…Una storia intensa sulle conseguenze del dolore e  dell’amore.  «Di Pietrantonio appartiene alla leva delle scrittrici che non  hanno timore di guardare in faccia il dolore, di toccarlo con mano, di mostrarlo così com’è nella sua scrittura senza orpelli”

Il Treno dei bambini

Il treno dei bambini è la storia di Amerigo Speranza che nasce a Napoli e vive  nel suo “basso”, cioè in un particolare appartamento della città partenopea,  insieme alla madre Antonietta. Amerigo aveva un fratello che non c’è più e la  mamma è l’unica persona rimasta nella sua famiglia; oltre alla figura materna,  presenziano quotidianamente tutte le persone del quartiere con le quali 

Amerigo si confronta e che contribuiscono alla sua crescita, in un modo o nell’altro.  Il bambino, tuttavia, ha anche degli amici coetanei: i più fedeli sono Mariuccia  e Tommasino, con il quale va “a fare le pezze” e combina guai. Il punto di svolta nel  romanzo arriva in concomitanza del treno: è il 1946 e Amerigo, insieme ai suoi due  migliori amici e tantissimi altri bambini, lascia la sua città natia e parte.  La direzione è una meta confortevole per l’inverno, un luogo sicuro, capace di offrire  ristoro, riparo, vestiti e scarpe nuove: il Nord. Questo treno nasce per iniziativa del  Partito Comunista, con l’ideale e l’obiettivo di allontanare temporaneamente i  bambini del Meridione dalle conseguenze di povertà disastrosa che la Seconda Guerra  Mondiale ha lasciato nella loro terra. Il libro è diviso in quattro parti ed ognuna  simboleggia un momento della vita di Amerigo Speranza: un destino prevedibile  e già segnato dalla sua condizione sociale, che subisce una svolta decisiva.

 

Il latte della madre

Lettonia, ottobre 1944: dopo un’occupazione durata più di tre anni le  truppe hitleriane si ritirano e l’Armata Rossa entra a Riga.

 Questo romanzo a due voci inizia da qui. A dipanare la storia una madre e  una figlia nei cinquant’anni che seguono la Seconda guerra mondiale,  il loro rapporto intenso e tormentato, segnato dalla depressione materna  e dal tentativo di arrestarne la tendenza autodistruttiva. La storia delle protagoniste  è narrata attraverso le due voci di madre e figlia, in un’alternanza di capitoli  in prima persona. A loro si aggiunge un’altra presenza femminile, cardine  su cui entrambe girano: la nonna. Tre generazioni che vivono sulla propria  pelle gli avvenimenti storici. La madre, che è un medico, e la figlia hanno  un rapporto quasi rovesciato, dove è più la figlia a prendersi cura della madre,  che deve fare i conti con la sua incapacità di accettare una forma di oppressione  che le ha tolto la possibilità di perseguire le sue aspirazioni professionali. La figlia,  che è nata quando la situazione era già così e dunque non ha conosciuto  un prima, vive in modo naturale la realtà, trovando gioia soprattutto nel rapporto  di grande amore con la nonna che la cresce, dato che la madre non riesce  a prendersi cura di lei. Crescendo e maturando, arriverà a capire da dove arriva  il disagio, il rifiuto della vita e capirà anche perché sua madre non ha voluto allattarla  quando era nata. Se la madre rappresenta la generazione che ha dovuto sottomettersi  e che ha perso l’amore per la vita, la figlia incarna la speranza nel riscatto,  nella realizzazione di quel cambiamento tanto agognato e che alla fine arriverà, a rischiarare  il futuro dei giovani, ma troppo tardi per coloro che ormai sono nell’età più avanzata.  Un romanzo molto profondo, che riesce a costruire perfettamente lo sfondo sociale  e storico così come riesce a raccontare la complessità del rapporto  tra madre e figlia, che qui viene esplorato attraverso tre generazioni.

La vita davanti a sé

Momò è un bambino che viene cresciuto da Madame Rosa in un appartamento  al sesto piano di un palazzo nel quartieri multietnico di Belleville, a Parigi.  La donna, un’anziana ebrea reduce da Auschwitz, si occupa di crescere i figli  di prostitute che per legge non possono tenerli con sé. Momò sembra un caso  a parte; proviene da una famiglia musulmana e sua madre, a differenza delle  altre, non si presenta mai e intorno alla sua origine sembra che tutti intorno a  lui mantengano il mistero. Sarà Momo il narratore di questa storia.  La madre lo ha abbandonato e il bambino trascorre la sua infanzia in questa  pensione clandestina dove vive con altri figli di prostitute, racconta del suo  rapporto materno con Madame Rose e della malattia della donna che vorrebbe  morire naturalmente senza cure. Quando Madame Rosa, un donnone di 95 chili,  ormai vecchia e ammalata, non sarà più in grado di curare gli altri bambini,  nell’appartamento al sesto piano rimarranno solo loro due. Intorno ai protagonisti  ruotano personaggi ai margini della società: il protettore delle prostitute  Monsieur N’Da Amédéé, che, essendo analfabeta, si fa scrivere le lettere da  Madame Rosa, il signor Waluomba e i suoi fratelli, che aiutano Momo a  trasportare Madame Rosa fino al sesto piano, Madame Lola, una bellissima  prostituta ma in realtà un ex pugile senegalese, che li aiuta a sopravvivere  con il suo denaro. Tutti questi personaggi appartengono ad età,  nazionalità e religioni diverse, eppure vivono insieme con grande naturalezza a e con profondo, reciproco rispetto. Un romanzo intenso, che fa  commuovere ma anche sorridere. Tutto il romanzo è in realtà una storia di  relazioni, di affetti, di solidarietà, di reciproca cura fra persone sole ed emarginate,  ma dotate di grande umanità.

                                                                                

La ferita primaria

Non è vero che non c’è differenza tra una  madre naturale e una buona madre adottiva. L’originario legame madre-figlio è infinitamente profondo e coinvolge la sfera fisica, emotiva, psicologica e spirituale. Per decenni le pratiche d’adozione non hanno considerato in maniera sufficientemente seria l’entità del trauma subito da bambini abbandonati e affidati a una nuova famiglia. Grazie all’esperienza personale di adozione di una figlia, l’autrice è riuscita a intuire sul campo e a dimostrare scientificamente l’estrema sensibilità del neonato già a pochi giorni di vita. Nulla di strano, dunque, se un’alta percentuale di figli adottivi manifesta aggressività verso i nuovi genitori, difficoltà a scuola e comportamenti distruttivi e antisociali che mettono a dura prova la costruzione di un legame di fiducia: la ferita primaria della separazione dalla madre si imprime inconsciamente, rendendo molto difficile la costruzione di nuovi rapporti affettivi (la paura di un nuovo abbandono è sempre latente). Un libro di grande aiuto per i genitori adottivi, capace di farci comprendere il vissuto dei nostri figli e le possibili azioni da intraprendere per far si che i nostri figli arrivino ad accettare la ferita che è in loro.

 

Sei sempre stato qui

Non è mica detto che un figlio arrivi subito.” In effetti no, per Roberta ed Eugenio, una coppia normale, una coppia come ce ne sono milioni, il figlio, la figlia che desiderano non arriva subito. Anzi, sembra non voler arrivare mai. Più volte nel ventre di Roberta qualcosa inizia ad accadere, ma nessuna gravidanza prosegue. Eugenio e Roberta provano con l’inseminazione artificiale, ma non funziona nemmeno quella. I mesi e gli anni passano e l’attesa si fa intollerabile, come se uno stesso giorno ripiegato su se stesso si ripetesse all’infinito, un giorno di figli desiderati, sfiorati, e poi perduti. L’esplorazione interminabile dell’incertezza li conduce al limite, come singoli individui e come coppia, ma li fa anche evolvere, ed Eugenio e Roberta, in un gesto di resilienza e di libertà, non si arrendono. Decidono di affidarsi al mare imprevedibile dell’adozione, di affrontare le pratiche, i colloqui, la burocrazia. Decidono di esercitare e guarire le loro anime per trovare la forza di prendere un ultimo respiro prima del tuffo. Decidono di affidarsi a un sogno che li porterà altrove nel mondo. Questo romanzo è la storia di una paternità desiderata, cercata, sofferta. Una vicenda individuale che grazie alla forza della letteratura diventa universale, una singola voce, voce di un uomo, voce di un padre, che si fa coro di una moltitudine di donne e di uomini, della loro volontà di essere famiglia, di donarsi, di amare.

ande umanità.